Treni

Sicilia, Stazione di San Lorenzo lo Vecchio – 2000 photo by Marco Valente

Tutto ha avuto inizio con un cd. Non uno di quei dischi leccatini, dalle belle serigrafie colorate, con ogni loro cosa in ordine: il libretto con i testi, la copertina in quadricromia, i caratteri tipografici high-tech per artista e titolo. No, davvero. Era uno di quei cd anonimi che si acquistano lungo le spiagge, quando fa troppo caldo anche per pensare, quando cerchi di dimenticare il sudore e il puzzo dell’olio di cocco rovistando nella borsa sformata di un ragazzone del Niger dallo sguardo acquoso e mansueto come le vacche del suo paese. Li chiamano marocchini: ma io di marocchini non ne ho mai visto nemmeno uno.
Il disco, comunque, aveva un foglietto sbilenco, tagliato con forbici dall’evidente assenza di filo, i bordi arricciati, la stampa sbiadita. Devi fidarti di quell’espressione quieta, perché aprire l’astuccio non serve proprio a nulla, a meno che ci sia in qualche parte del mondo uno sfigato della musica dal nome TDK: nome di marca rigorosamente contraffatto, ovvio. Ora non ricordo esattamente cosa contenesse, ma molto probabilmente c’era una di quelle compilation che vanno per la maggiore, con i motivi più ballati dell’estate.
L’ho preso così, senza metterci troppo impegno, mentre Giovanna e Federica maliziavano con sguardi furbetti sui muscoli lucidi e guizzanti del nigeriano. Tanto non era mica per loro, anche se sul momento non mi era affatto chiaro. Lei è apparsa solo in un secondo tempo, appena un attimo dopo, mentre posavo le mani sulla plastica rigata dagli scossoni subiti per tutto il giorno e il giorno prima, e se non l’avessi ora con me, anche il giorno successivo, faticando avanti e indietro sulla spiaggia di Marina di Noto. È venuta su come un rigurgito non provocato, come talvolta mi capita con la caponata che fa mia madre, con le melanzane, le olive scure, i capperi e le grosse mandorle di Avola. Perché io sono di lì, di Avola, ma lei di dove fosse proprio non l’ho mai saputo.

Mi ricordo che è stato una sera di febbraio, in una discoteca vicino Augusta. Flash Disco mi pare: un brutto capannone sulla collina che domina la cattedrale sfavillante di luci della grande raffineria. Fuori l’aria era frizzante, appena velata da una nebbiolina leggera che saliva dal mare. Dentro invece faceva tanto caldo.
Avevo una camicia di cotone a righe sottili e un paio di jeans comprati al mercatino rionale ma proprio belli, attillati e stretti in fondo come piacciono a me.
C’ero andato con Carmelo, quella volta, arrancando con la sua supercinque bianca lungo la salita sterrata che dalla strada arriva allo spiazzo dove si parcheggiano le macchine. Si calpesta un po’ di tutto prima di entrare: preservativi usati, fazzoletti di carta appallottolati, cicche, bottiglie, gomme masticate dai colori pastello. Bisogna fare molta attenzione nel varcare la soglia, ma più ancora quando si esce, perché lo strato nel frattempo si è rigenerato e sulle pale dei fichi d’india che guardano la baia fioriscono mille nuove siringhe, l’ago affondato per metà nella carne verde e tenera per il rito notturno dei cinque metri.
“Guarda quella, guarda che minne! Secondo me è una sesta abbondante”.
Carmelo su queste cose si sbaglia raramente, ma a me colpiva più lo sguardo. Vabbe’ anche le tette, certo.
Se ne stava appollaiata su un gradino di ferro rugginoso, gli occhi persi nel vuoto affollato di corpi, per nulla toccata dalla techno che pompava dagli altoparlanti vicino. Se volevi parlare, scambiare un’opinione, dare un telefono, dire una sconcezza, lì dentro dovevi urlare come un forsennato. A bocca aperta, vene del collo e sesso gonfi da far paura. Lei niente: era come se galleggiasse in una boccia di vetro, incurante di tutto.
Ho aspettato un lento per avvicinarmi e sollevarla viscida e molle come un pesce dalla cassetta. Lo so che fa strano un lento in discoteca, ma qui al Flash divanetti e rientranze complici dove strusciarsi non ce ne sono, e allora la direzione ha trovato questo sistema per farti trovare la scopata della notte. Poi, dopo, che ognuno si arrangi come può, in macchina o lungo la scarpata fra cocci di vetro e barattoli sfranti. Se non mettessero almeno un lento, qui, non ci verrebbe nessuno.
“Luigi mi chiamo,” gli ho detto, “ci vieni spesso qua?”
Lei ha appena ruotato le orbite sporgenti per mettermi a fuoco e mi ha piantato uno sguardo duro in mezzo agli occhi, proprio come una volta ho visto fare a mio padre con un cane rabbioso che l’aveva morso, sparandogli due fucilate e mezzo chilo di piombo nel cranio.
“Tu sì invece, vero?”
A malapena mi arrivava al petto, e quelle sue cose dure e cedevoli le sentivo alla base delle costole. Un caschetto di capelli biondo pallido, duri e ispidi come il crine di un cavallo; una gonna qualunque, nera, a fasciarle i fianchi larghi; due gambotte da contadina inguainate in stivali lucidi, non so se di pelle o vinile. Una donnina da niente, insomma, buona per fare mattina dietro un muro a secco, con la fronte tatuata dalle irregolarità della pietra e il culo bianco esposto al freddo dell’alba. L’ho stretta ancora di più, una bella strizzata per farle capire che ero disponibile, che la cosa si poteva fare. Non ha detto niente, ma ha continuato a guardarmi fisso mentre le facevo sentire il pacco. Poi, improvvisamente, ha riso.
Non ho mai sentito ridere nessuno così, senza suono, la bocca aperta in una piega distorta, i denti affilati che brillavano nel buio. Una frattura animale, un urlo disseccato che mi ha trapassato il cervello travolgendo tutto al passaggio. Cumuli di rovine.
E gli occhi. Quegli occhi…
Sono rimasto sulla pista, solo, inebetito, mentre tutto, intorno, vorticava a ritmo di musica. In testa un rombo, nel cuore l’angoscia, nelle gambe niente, in mano un foglietto. Sono Luisa, questo è il numero. Chiamami, ma non farti aspettare troppo.
“Allora? Com’è andata, ci sta?”
La voce di Carmelo mi è arrivata da tanto lontano, ma è stata sufficiente.
“Dammi qua,” mi fa.
“Porca puttana! E chi sei? Il trapanatore dei Peloritani? La minchia dura e rossa dell’Etna? Luisa, eh? Luisisonia, vorrai dire!” e ride.
“Non capisci un cazzo, Carmelo! Ma vaffanculo, va’”.

Da allora non ho fatto nulla. Fino a oggi, in spiaggia.
Sono tornato a casa che imbruniva. Giovanna e Federica le ho lasciate al bar della piazza, a mostrare le gambe dorate sulle selle delle moto. Io no, avevo un’urgenza, un appuntamento da rispettare.
Ha risposto al telefono con voce piatta, asciutta, come se fossero passati solo pochi minuti dall’ultima volta che le avevo parlato, non mesi, e neanche ore. È stata molto precisa a riguardo: a mezzanotte, sotto il tunnel fra Avola e Pachino, dove la statale per Siracusa si inabissa per un lungo tratto, dove di giorno il sole penetra con lame sottili a ferire la retina e ubriacare la guida. Non so quale allucinato architetto abbia deciso e perché di aprire minuscoli rettangoli nella volta: sta di fatto che ogni tanto, a intervalli di tempo regolari come metronomi, trovi una macchina piantata nel muro, e la galleria si illumina di lampeggianti blu come fiordalisi.
Proprio al centro, ha detto, e io non ho avuto nulla da ridire.
Il vestito era lo stesso. Lei anche. La macchina che mi precedeva ha fatto risuonare un colpo prolungato di clacson che ha riempito il volume racchiuso fra le pareti squadrate. Ha anche finto di investirla lo stronzo, ma lei non si è mossa di un millimetro. Mi sono accostato piano, lungo la striscia gialla, e lei ha ripreso vita. Ha aperto lo sportello, è scivolata pesantemente sul sedile, ha messo la sicura e senza smettere di guardare il parabrezza mi ha ordinato di partire, “Ti dico io dove fermarti”.
Venti minuti di silenzio, mezz’ora forse, poi di punto in bianco mi dice di voltare a sinistra, prima di una curva, dove c’è lo slargo della vecchia stazione ferroviaria di San Lorenzo Lo Vecchio. Ho appoggiato il muso della macchina contro una lavatrice sventrata. Fuori solo grilli, rifiuti e la luce fredda della luna.
La maglietta le si sollevava piano, ritmicamente, e ad ogni ansito i seni si espandevano a fatica verso il cruscotto.
“Ho pensato di regalarti questo, l’ho comprato per te”.
La testa ha ruotato molto lentamente, facendo perno in modo innaturale sul collo come richiamata dal suono, il corpo immobile. Ha guardato prima me, poi il cd che tenevo fra le mani; ha disteso piano le dita fino a posarle sull’astuccio, le ha passate piano con movimenti circolari sulla superficie, lo ha attirato a sé afferrandolo dal bordo e lo ha soppesato a lungo.
“E cosa dovrebbe rappresentare secondo te?”
Mi sembrava tutto sbagliato. Ho mandato giù un groppo di saliva per prendere tempo e trovare una qualche risposta, però il rumore soffocato della deglutizione si è impennato di colpo raggiungendo la sonorità di uno schianto. Che la causa non fosse quella l’ho capito dal rivolo di sangue che dalla fronte ha preso a gocciare sul petto.
L’ho guardata instupidito mentre succhiava via dall’angolo di plastica ogni traccia di liquido, gli occhi fissi nei miei, poi ha cominciato a ridere, forte, soffiando fuori l’aria come un gatto o un rospo; mi ha artigliato i capelli in una morsa e si è avvicinata fino ad alitarmi contro le parole.
“Non devi. Non provare mai più a portarmi cose così. Quello che voglio deve avere un’anima. Portami ciò che un tempo possedeva una storia, qualcosa che odori ancora di vita”.
Il respiro mi si è impigliato in gola quando è passata fluttuando sul cambio dalla mia parte e, cavalcioni, ha preso a leccarmi la ferita, il mento appoggiato su una mensola di carne, il cuore che frullava come una farfalla impazzita. E dentro qualcosa cresceva: un dolore raggiato e lancinante che si spandeva dall’inguine per scendermi fin nelle ossa, attraversando i nervi, sfibrando i muscoli. Una muta paralisi su cui lei, Luisa, si è accanita a lungo con furore.

Ho imparato col tempo a non poter fare a meno del suo ghigno. Se talvolta vi sfuggivo, soprattutto le prime volte, era più che altro perché ancora avevo una parvenza di vita sociale e comunque, quando capitava, Luisa me la faceva pagare a caro prezzo e mia madre non riusciva a capire dove e come riuscissi a ferirmi così.
L’appuntamento era sempre sotto il tunnel, a mezzanotte, con qualunque tempo. Luisa non ha mai cambiato abbigliamento e, dopo poco, ho preso a farlo anch’io: le uniche differenze riguardavano i luoghi e gli oggetti. In pochi mesi, abbiamo battuto tutte le stazioni diroccate fra Messina e la punta di Capo Passero dove, per una volta, invece che all’interno di una struttura ferroviaria, ci siamo sbattuti selvaggiamente in ciascuna delle stanze della mole normanna trasformata in faro.
All’inizio cercavo le cose da portarle dai rigattieri o nei mercati delle pulci. Potevano essere spille da donna, vecchi abiti consunti che indossava con una strana luce negli occhi, pipe, orecchini, scatole di latta mangiate dalla ruggine e con le scritte quasi illegibili, maniglie in ferro battuto, gocce di cristallo superstiti alla distruzione del loro lampadario, vasi sbreccati di Caltagirone, stoviglie spaiate. Ovunque vi fosse una traccia d’uso lei la trovava, ne seguiva il percorso fin dove poteva, frenetica: annusava, tastava, si strusciava le superfici sul corpo, infine le leccava, quasi a succhiarne la vita e l’energia che un tempo vi erano transitate. E ogni volta era il suo sguardo stralunato a illuminare la notte e il suo riso a darle senso.
Poi, la vita mediata dalle cose prese a non bastarle più. C’è voluto tempo per capire, per avere l’esatta cognizione dei contorni dei suoi desideri, e ho dovuto chiudere le orecchie al suo soffio innumerevoli notti prima di riuscirci, marchiato a sangue come un manzo.
Le rane e le lucertole le trovavo fra le distese di serre diafane che si adagiano sulla terra rossa della campagna fra Marzamemi e Pachino. Più difficile era la cattura dei piccoli conigli selvatici: ore e ore di appostamento per tornare spesso con le mani piene solo di brina e ciuffi d’erba. Animali più grandi, quelli no: per uccidere a sangue freddo un vitello o una pecora ci vuole un coraggio e una distanza che neanche Luisa riusciva a strapparmi fuori dalle viscere. Così ho cominciato a battere i cimiteri.
Uscivo di casa intorno alle due del pomeriggio, e per tutto il resto del giorno mi mescolavo a persone sempre diverse, portando a foto sorridenti e teorie di date e luoghi gli stessi fiori e la stessa espressione appesa. Mi soffermavo un po’ più a lungo davanti alle tombe più vecchie, in zone dimenticate, dove non andava mai nessuno perché chi conosceva quel defunto era defunto anch’esso. Lì le erbacce crescevano indisturbate, e aspettavo in silenzio il buio tentando di immaginare quella vita che fra qualche ora, con la precisione del tassidermista, Luisa avrebbe ricostruito.
Era facile staccare le lapidi dalla parete vincendo la resistenza di un cemento vecchio almeno di cinquant’anni. Di solito si sbriciolava al primo colpo e cadeva leggero come una neve farinosa, come il borotalco che da piccolo, mia madre, coi lunghi capelli neri intrisi d’acqua e le maniche del golfino tirate fino ai gomiti, mi faceva piovere sulla pelle ancora umida dal bagno.
Non sempre ero convenientemente rapido. Talvolta in quella cascata sottile si intrufolava un pezzetto più grande. E allora, come al cospetto di un singolare caleidoscopio in toni di grigio, capitava che mi perdessi anche per ore seguendo in superficie le infiorescenze delicate e spumose degli zolfi e del salnitro. In ogni caso, inesorabilmente, sapevo bene a chi appartenesse quell’ultimo simulacro di esistenza.
Ma Luisa, ogni volta, diventava più esigente e non bastava sacrificare anche la più recessa stilla di volontà in affannose ricerche. Il riso si faceva più assordante. E gli occhi più duri. E le carni più livide. Finché una sera, sotto il tunnel, l’alba è arrivata senza di lei.

Sono tornato a casa con un’angoscia senza risposta e poveri resti leggeri come pietra pomice che ho gettato al cane dell’interno due. Ho portato il telefono in camera e ho composto il suo numero infinite volte prima di abbandonarmi a un sonno frammentato. Infinite volte, fino a fare dei gigli ocra della tappezzeria l’intero universo, fino a ridurre il rumore del mondo a quell’unica asserzione di indisponibilità monocorde. Un vuoto che le mute occhiate di salvezza di mia madre non riuscivano a colmare: lei a sgranare fagioli rossi e bianchi sul tavolo di fòrmica in cucina e io a guardarla dal fondo del corridoio, gettato bocconi sul letto.
Allo scoccare della mezzanotte sono stato di nuovo lì, ad aspettare che la sua figura si delineasse fra i neon gialli del tunnel. E così la sera dopo, e l’altra ancora, per due settimane. Invano. Stanotte però ho visto la supercinque di Carmelo e ho visto lei.
Era proprio dove doveva essere, al centro, a lato della striscia gialla. Mi ha guardato a lungo china sulla portiera dell’auto, così a lungo che i suoi occhi di tonno hanno occupato l’intera galleria. Poi la sua risata è echeggiata alta, feroce, ed è rimasta ad aleggiare nella volta anche quando lei, ormai, non era più che un pallido riflesso biondo sempre più distante.

Ho passato la giornata fra gli edifici diroccati della tonnara di Vindicari, sulla spiaggia, a guardare infrangersi onde lievi come carezze. Più su, di tanto in tanto, immaginavo lo sferragliare dei vagoni merci e il sibilo allungato degli espressi scendere a coprire il rantolo dell’acqua.
Ho aspettato, immobile, che scendesse la sera prima di dirigermi lungo la statale. L’auto l’ho abbandonata sul viottolo che corre a lato della ferrovia, dove sputando vapori di nafta ancora arranca qualche raro e asfittico locale. Ho scosso la sabbia dai jeans e li ho piegati con cura. Sopra ho gettato la camicia, le calze e le scarpe. Ho tolto anche l’orologio, e nudo mi sono disteso a guardare le stelle.
Quante ce n’erano, un incendio. È stato allora che l’urlo ha preso a soffiare di nuovo il suo alito diaccio e acido. Ha lambito la pelle, asciugato gli umori, disseccato ogni volontà. Un grido di uccello notturno che si è posato sulla mia testa come il cappuccio di un frate.
Sì, forse sarei stato ancora suo. Ancora una volta. E ho sorriso quando il terreno, nel freddo cupo dei binari, ha cominciato a vibrare leggermente.