Mare

Grecia, Itaca – 2013 photo by Marco Valente

Mai inventeranno un’autostrada più dolce del mare.
Elvira Cones, Sole bruciato

Ho appena fatto l’amore con lui. Guardo fuori. Il vento, lieve, mi intreccia i capelli e gioca a lungo con le ciocche che ricadono esauste sulla fronte. Guardo il mare, la sottile linea spumosa delle onde che vengono a morire poco sotto la mia finestra. Le carezzo con gli occhi e penso che oggi, in fondo, sono un poco morta anch’io. Ancora una volta. Una volta di troppo.
Passo due dita sugli stipiti di legno, le lascio correre lungo le persiane impolverate, verdi, ed è come se tutta questa lentezza mi si riverberasse sulla pelle. È un languore strano quello che mi prende dopo, non ha nulla a che fare col respiro di lui contro la mia bocca. Qualcosa che somiglia molto alla consapevolezza: mi fa vedere l’interno delle cose, penetra al di là di ogni sottile diaframma di circospetta distanza. E mi lascia quieta, dentro e fuori di me.
Vorrei, amore, che tu potessi essere altro di un corpo abbandonato al sonno. Altro. Mi giro a scrutare il braccio che ti si solleva sul petto ad ogni respiro, e la tenerezza di averti avuto dentro quasi svanisce di fronte all’evidenza che tu, di me, non puoi percepire altro se non un confuso senso di attaccamento alla vita e il desiderio spesso di perdersi. Non hai gli strumenti, e non potrai mai essere me.
Eppure, stamani, quando hai passato una mano sottile sui miei capelli hai reso tutto di una sfolgorante bellezza. Ho fatto l’amore con te per questo, per una inutile volontà di fermare e conservare in me un frammento di tanta dolcezza. Svanirà presto, invece. So che è così.
Ti ho osservato a lungo mentre venivi: un rantolo sommesso che dall’inguine saliva alla gola transitando per il cuore. Ho spalancato gli occhi per vedere meglio, come farebbe leggendo una favola una bambina curiosa di sapere come andrà a finire. Tu hai equivocato, hai creduto di avermi inchiodato per sempre al tuo sesso, che sarei stata tua anche domani, e domani l’altro, sempre, nello stesso modo. Eri così assorto e lieve che non ti sei nemmeno accorto di come aleggiassi ovunque su di te, di come riuscissi a registrare ogni vibrazione del tuo corpo standone al di fuori, appesa al soffitto o fluttuando intorno al letto. Sei venuto, ma io sono andata.
Mi piacerebbe che tu fossi come questo mare livido, eternamente in movimento, per nulla uguale a se stesso, diverso sempre. Mi basterebbe poco, davvero, giusto un leggero mutamento, un sentiero appena abbozzato che abbandona la strada larga e ben tracciata. Possibilità. Scoperta. Fosse pure solo perdita. Invece sei lì: un sorriso appena increspato sulle labbra che culla un sogno. Sono io? Come posso sapere se quel desiderio che ancora tende il lino del lenzuolo sono io. Potrebbe essere tua madre, o magari la ragazza leggera che ti ha sfiorato le dita sul metrò. Tua madre, forse. Il vestito è lo stesso della foto che mi hai fatto vedere ieri tirandola fuori dal tuo portafogli, ingiallita e arricciata come una reliquia. Ha un bel sorriso tua madre e in quella foto è bruna e solare come me. Me ne sono innamorata anch’io, di colpo. Vorrei avere un abito come il suo ora, in questo preciso momento, per sorprenderti al risveglio come deve esserti capitato molte volte da piccolo. Un abito bianco, dritto, stretto ai fianchi; un abito da bambola giapponese con grandi fiori gialli aperti sui tuoi tre anni. Mi ameresti di più così?
Ti giri su un fianco e stringi distratto il cuscino, e io ho di nuovo il mare davanti e pareti bianche dietro e tende di mussola intorno. Tengo il seno raccolto fra le braccia e ho il sesso morbido schiacciato contro il muro. Ho freddo, ma è solo stanchezza. Ti sveglierai, fra poco, ma io non ci sarò. Non so esattamente il perché di tanta irrequieta smania, forse dipende da questo mare che guardo sempre troppo a lungo, forse dal fatto che non riesco a considerare mio nessun luogo, neanche questa casa che amo tanto. E comunque non sei tu quello che ha trovato la chiave, per quanto ci sia andato vicino. Nemmeno tu, purtroppo.
L’altra sera c’era un luccichìo nel tuo sguardo, un barlume di impertinente sfrontatezza che per un istante mi ha lasciata molle come una gelatina rappresa. Sto cercando di richiamarlo alla memoria per capire se quello che dici, quello che racconti di te, è vero. Un lampo per illuminare una vita. Magari chiedo troppo, ma è l’esistenza che mi rende così esigente. Ho fretta e ho solo questa vita da spendere.
La luce nei tuoi occhi, dicevo.
All’inizio ho creduto che tu potessi leggermi dentro, che ti riuscisse facile sfilarmi come un guanto e aiutarmi a toccare a mani nude la realtà delle cose. Ed è successo davvero, questo non posso negarlo, ma succede sempre, tutte le volte: altrimenti come potrei essermi innamorata di te? Il problema è che dopo un po’ mi si sfuoca la vista o magari è solo che vedo più chiaramente. È allora che mi sembra di avere una scatola di giochi con cui ho giocato troppo a lungo per sorprendermi a fantasticare di nuovo. Devo fermarmi da qualche altra parte.
So che può sembrare ingiusto, talvolta anche superficiale – me l’han detto in molti, spesso con rabbia e parole dure – ma è vero l’esatto contrario: è la ricerca della pienezza e della profondità che mi rende così nomade. Qualcuno ha compreso. Sono le persone che stringo con più tenerezza al cuore. Come te, per esempio.
Strano, mi vien voglia di ballare, adesso, e di giocare a rimpiattino con la mia ombra in ognuna delle stanze di questa grande casa bianca dove c’è sempre almeno una parete che incornicia un tratto di mare. È mio padre che l’ha voluta così perché è così che l’ho chiesta io.
Sapevi che molti dei miei solitari giochi d’infanzia erano affollati di una moltitudine di presenze? È una cosa che faccio spesso, ancora oggi che al posto delle calze bianche a coste amo indossarne di nailon velato, con piccole clip che si allungano dalla vita per sorreggerle. È bello fluttuare fra tante persone in movimento, entrare nei loro pensieri, parlare con la loro voce, dare corpo ai loro desideri, alle loro pulsioni più nascoste. Tutte espressioni che cerco di riversare come un fiotto dentro di me. Le senti? Sono sicura di sì, so che puoi sentirle, sono tutte intorno al letto dove respiri così quieto e tu, in questo, sei identico a me.
Ho poggiato le mie labbra alle tue, lievi come le ali delle farfalle che ricorrono tanto spesso nella tua parlata sciolta e che dici di amare tanto. Hai un sapore fruttato di fiori freschi. Forse è per questo. Passo la lingua tutt’intorno e prolungo all’infinito il piacere di lappare rapita lo scoppiettìo delle corolle, le essenze dei petali.
Mi è capitato di farlo per giorni, e mi stupivo che questo profumo non perdesse nulla della sua intensità originaria: eri lontano ma tutto nell’aria mi parlava di te.
Ti sei voltato verso la finestra, ora, e c’è una lama di luce che ti disegna netta l’ombra del naso. Vorrei che tu aprissi gli occhi proprio in questo istante e che, ferma contro lo sfondo del cielo, mi levigassi il corpo con lo sguardo. Lentamente.
Ma è tardi. Non c’è più tempo. Devo andare, ora. Vorrei non farlo, davvero, ma non posso più rimanere altrimenti rimmarrei per sempre. Devo. È strano sentirsi così vicina eppure essere già altrove. Così lontana, amore, che neanche la tua immaginazione riesce più a sfiorarmi.

So bene quello che è successo. Ci sono tornato molte volte su quel letto anche se da allora, di anni, ne sono passati diversi. L’ho sempre saputo, fin dall’inizio, e lo so con assoluta certezza anche adesso.
Quella mattina ti ho osservata per tutto il tempo: ti ho seguita danzando in ciascuna delle stanze, mi sono avvolto con te nel tessuto fresco delle tende, ho parlato con tutti i passanti che hai fatto entrare in quella grande casa bianca assetata di mare. Forse, a un dato momento, avrei potuto fermarti, alzarmi quando non eri altro che una figura scura e imprecisa contro la luce, voltarti prendendoti per le spalle a osservare il mare e farti l’amore affacciata sul mondo d’acqua fuori di lì. Avrei seguito il ritmo delle onde perché niente in questo mondo può vivere senza armonia, e magari non saresti andata via. Non subito almeno. Ma presto o tardi sì.
Così se quel giorno l’avessi fatto, se io ti avessi amata di nuovo, in piedi, con la bocca sul tuo collo e le mani affondate nei tuoi capelli, tu non saresti più tornata. E quel biglietto che in fretta, prima di uscire, hai deposto delicatamente accanto al cuscino per non svegliarmi, tu non l’avresti scritto mai, e io non avrei avuto più alcun potere di richiamarti indietro.
È qui, adesso, in questa città, sulla mia scrivania: un frammento della tua grafia sconnessa esposto alla brezza carica di mare che arriva su, filtrando dalle imposte, fino al quarto piano. Ha atteso a lungo, paziente, tenace, a volte appena gravato da un senso di pesante inutilità. Ma stasera, nel brusìo sommesso e indistinto di una grande stazione, sarà proprio lui la prima cosa che vedrai.
La prima.
La seconda, invece, un grande fiore giallo.