Come fossero mille

Paris, Dans le Metro – 2010 photo by Marco Valente

Lo ammetto. Sì, lo ammetto. Le amo tutte, ognuna di loro, ognuna in modo diverso. Messa così la cosa, uno potrebbe anche accusarmi di superficialità, di infantilismo. Me ne rendo conto, ma la faccenda non mi interessa granché. D’altronde non sono qui per ottenere consensi. E dei commenti non so che farmene, non mi toccano. Mi limito semplicemente a voltare le spalle ad entrambi, ecco. Nicchio. È o non è la mia vita? Tuttavia capisco anche che qualcuno possa essere curioso, anzi ad esser sincero la curiosità è forse il solo atteggiamento verso il quale ho un istintivo rispetto. E allora mi sbilancio, mi metto a nudo.
Lo ammetto, sì lo ammetto, le amo tutte, ognuna di loro, ognuna in modo diverso. Non sono un collezionista, non mi interessano i numeri, è solo che la varietà e la complessità mi stordiscono. Ho bisogno della loro diversità, è come una droga. Rimango ore e ore pieno di meraviglia a sondare tutte le pieghe straordinarie che prendono i loro desideri, il modo in cui si formano, come si modificano. Amo le loro menzogne alla stessa stregua delle loro verità, perché in fondo sono sincere anche quando mentono se mentono davvero; è una parte importante del loro essere e non si può amare per parti discrete: si deve prendere tutto insieme, in blocco.
Talvolta non mi riesce di seguire indisturbato il percorso sul quale sto camminando. Incespico, non sempre capisco. È una complessità che si ramifica in cento rivoli, si placa in mille anfratti, prende bruscamente direzioni insolite per poi tornare alle posizioni di partenza. E cambia la sua natura, incessantemente, nuova ogni volta. Quando succede mi perdo. Mi annullo in tanto mare. Quello che succede intorno non mi arriva più. Almeno fino al momento in cui non ne incontro un’altra.
È sempre stato così? Non so, non so dire quando la cosa abbia avuto inizio e nemmeno perché. So solo che esiste e tanto basta. Per alcuni invece il solo fatto non era sufficiente, così hanno pensato che potevano farmi approdare a un maggior grado di consapevolezza con qualche termine ben assestato. Priapismo, satirismo e altri ismi che ho sepolto ormai da lungo tempo. Qualcuno, più fantasioso degli altri, è persino arrivato a coniugare la sindrome di Pan sviluppandola da quella di Peter Pan. Un vero genio. Ora, non è che io abbia riserve sulla capacità evocativa della parola, sulla sua potenza creatrice. Figuriamoci. Per me dare un nome alle cose significa già dargli un peso, una dignità, la consistenza dell’io cosciente. Ma non tutte le parole sono così: alcune sono troppo abusate e generiche per essere davvero feconde.
Il problema è che non c’è niente di peggio di chi tenta di ragionare per categorie e classificazioni. Tassonomicamente, verrebbe da dire. Questo lo si mette qui, quell’altro di là, e in questo modo si ha l’illusione che il mondo sia dotato di senso. Le cose sono vicine perché si conoscono per grandi linee, vengono definite da rapporti di prossimità, per analogia. Ci si affida alla vista, è più rassicurante. Ma gli occhi ingannano, non sono mai sinceri, ci fanno vedere solo quello che vogliamo vedere. Invece il tatto… Oh, il tatto… La possibilità di percepire ogni infinitesima pronunciazione della vita senza orpelli, disadorna, esattamente per quello che è. Perché se la vita è la capacità di un unicuum di modificarsi, evolvere, interagire e trasformarsi, allora la vita è ovunque, anche in un sasso o in un pensiero, non solo nel ciclo del carbonio. Ogni singolo atomo vibra, vibrano i composti molecolari, le catene di amminoacidi delle cellule, le geometrie dei cristalli, i tessuti, gli organi, e crepitano le emozioni che modificano i tratti del volto: una vibrazione che interviene sulla forma, la lunghezza e la frequenza caratteristiche di un’altra onda. Se per ipotesi esistesse una macchina che fotografasse la realtà per come è davvero – cosa impossibile perché la macchina vibrerebbe essa stessa – il mondo apparirebbe circonfuso da un’unica, immensa, lattiginosa nebbia vibrante. A che servirebbero gli occhi allora? Non ci sarebbero contorni tanto definiti da permettere di riconoscere e classificare le cose. Basterebbe fermarsi ad ascoltare di più il proprio corpo, lasciarsi pervadere dalle vibrazioni che arrivano al confine delle nostre, consentire che dialoghino. Ma andiamo tutti troppo di fretta, non siamo disposti a dedicargli del tempo. Non lo facciamo neanche per l’amore, meglio limitarsi all’apparenza.
Io invece mi siedo. Salgo su un treno e mi siedo. Quieto. Trepidante.
Scelgo una poltrona, una alla volta, chiudo gli occhi e ascolto. Mi insinuo in ogni piega di quell’essere meraviglioso che anche solo per poco, fosse pure per il breve tragitto fra due stazioni di un treno locale, ha pervaso di vita la poltrona che mi accoglie. Che, inutile dirlo anche se stentate a crederlo, ha modificato completamente la struttura del velluto e dell’imbottitura che ora mi calza come una seconda pelle. Le sue vibrazioni caratteristiche, per meglio dire. Perché la materia, se non lo sapete, è dotata di memoria, si altera al contatto con altra materia. E io so come riconoscere una poltrona dotata di senso da una che non ne ha, da una che racconta solo del suo essere poltrona. Voi vi limitate a registrare se il tessuto è macchiato, sformato o liso. Usate gli occhi, come sempre. Invece io, se lì c’è stata una donna, lo so prima ancora di occuparla. È una questione di sensibilità, di riconoscere il diverso da sé, di accettarlo. E cambio sempre, prima una, poi l’altra, per tutto il convoglio. Ognuna diversa, ognuna importante. Avanti e indietro. Incessantemente. Su ogni tratta. Per amarle tutte. Appieno. Intensamente. Tutt’e mille. Perché chi lo sa dove abita davvero la felicità? Con quale forma si presenterà la prossima volta?
Per sempre? No. Un giorno ne troverò una che mi parlerà come nessun’altra ha fatto mai.
Mi vacillerà il cuore allora, mi si piegheranno le gambe allora, e rimarrò lì stordito e attonito a seguire un corso che non avrà mai fine, quello sì sempre diverso e purtuttavia uguale a se stesso. Non ne avrò più mille, allora. Ma solo una da amare come fossero mille. Solo una. E resterò su quella poltrona fino a che lei, il motore di tutto, non salirà di nuovo sul quel treno, non cercherà di nuovo la mia poltrona. Un giorno dopo l’altro. Su quei binari. Testardo e paziente perché l’amore vuole anche dedizione.
E soldi, molti soldi forse. Per acquistare tutti i biglietti che il tempo riterrà necessari.