La Fiera di Roma Magazine – ott/nov 2012

Marrakech. La città dei giardini

Detta così suona strano, ma se le cose fossero andate diversamente Marrakech avrebbe impedito a Colombo di scoprire l’America. Yūsuf ibn Tāshfīn è un capo berbero, viene dal Sahara e ha il piglio energico degli “uomini blu”. In poco tempo estende la sua influenza in buona parte del Maghreb, crea un impero che si estende dal Senegal all’Algeria e fonda la sua capitale, Marrakech. È il capostipite di una importante dinastia, quella degli Almoravidi, che nella seconda metà dell’anno mille interviene in forze in Spagna e che, approfittando delle lotte di potere che stavano squassando il califfato di Cordova, invade al-Andalus, sconfigge più volte i re cristiani e riunifica i diversi regni di Taifa. È l’avversario del Cid, l’eroe nazionale della reconquista, l’antagonista di Charlton Heston nel film omonimo. L’intervento di Yūsuf, nonostante la retorica holliwodiana, mise alle corde i re di Castiglia e creò le premesse di un grande regno unificato. Purtroppo i suoi discendenti e soprattutto l’ultima dinastia, quella degli Almohadi, non ne furono all’altezza e già alla sua morte ripresero le lotte intestine che favorirono nel tempo la cacciata degli arabi dalla Spagna. Se il disegno di Yūsuf ibn Tāshfīn invece avesse avuto successo sarebbe nata una grande potenza che dall’Atlante arrivava ai Pirenei e Colombo non avrebbe mai trovato un regno così proiettato all’esterno e disposto a finanziarlo come quello di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia. Qualcosa però rimane. L’aspetto di Marrakech oggi è quello rifondato dopo la distruzione e il saccheggio del 1220, ma lo spirito di Yūsuf è in ogni pietra, in ogni arabesco: quella volontà a un tempo granitica e creativa fatta di spazi aperti e gusto estetico, di durezza guerriera e leggerezza artistica, di rigore e di indulgenza al piacere. Basta avere il giusto grado di curiosità e non lasciarsi intimorire da come Marrakech si presenta all’esterno con i muri lisci delle case, l’intrico delle vie, le imposte chiuse. Il colore predominante della città vecchia, la medina, è il rosso, rosso in tutte le sue varianti, dall’arancio, al rosa, all’ocra. Sono così i banchi delle spezie, le facciate delle case che ammantano d’ombra i vicoli, le decorazioni. E tutto è immerso in un vociare e in un movimento continui: bambini che sfrecciano, venditori che ti lusingano, occhi neri che ti scrutano. All’inizio si rimane storditi, frastornati, poi viene da pensare che tanta energia con questo caldo da qualche parte deve pur placarsi, trovare un tempo fermo e così, magari sovrappensiero, si varca una porta e ci si trova in un’altra dimensione: è un riad, la dimora tradizionale marocchina, un patio celato al mondo con piante verdi e piccole fontane d’acqua gorgogliante. Certo, oggi la maggior parte dei riad sono hotel o ristoranti, tuttavia anche così è forse il modo migliore per comprendere questa particolare filosofia di vita. Ce n’è anche un altro in verità: il souk. Bisogna dire subito una cosa: se ne parla sempre al singolare ma sarebbe più corretto usare il plurale perché di souk ce ne sono diversi, uno per ogni tipologia di mercanzia, e a Marrakech si trovano nelle stradine a nord e a est di piazza Djemaa el Fna. Dalle parti di rue Bab Doukkala si trovano il souk Kimakhin (strumenti a corda), il souk El-Bradiia (anfore), quello di Addadine (oggetti di metallo), il souk Chouari (cesti e legno), il souk dei Tintori e il souk Smata (ciabatte e cinture); a Rahba Kedima c’è il souk delle spezie e in rue Suk El Kebir il souk El-Btna (pelli), quello di Zarbia (tappeti), El-Kabir (pellame) e il souk Siyyaghin (gioielli). Ci si può solo perdere, anzi si deve. E ci si deve dimenticare dell’orologio, del tempo che passa, della necessità di arrivare a un obiettivo: mai come qui non è il risultato quello che conta ma come ci si arriva, fra chiacchiere, battute, contrattazioni e tè alla menta. Poi ci si può anche consegnare all’enorme spazio all’aperto di Jemaa El Fna, la grande piazza, dove a ogni ora del giorno e della notte succede qualcosa: incantatori di serpenti, cantastorie, maghi, fachiri, venditori d’acqua, artisti di strada, chiromanti, tatuatori con l’henné. Non per nulla nel 2001 l’UNESCO l’ha dichiarata patrimonio orale e immateriale dell’umanità. Ed è solo l’inizio, perché Marrakech ha molto da offrire. I palazzi dell’epoca d’oro – fra tutti El Glaou –, i nidi di cicogne sulle mura d’argilla, il mercato che si svolge ogni settimana presso Bab-Khemis (la “Porta del giovedì”), dove confluiscono le merci dei villaggi dell’interno e si incontrano i compratori di cammelli, la porta di Bab Aguenaou, le Tombe Saadiane, il museo dell’artigianato di Dar Si Said, la Medersa Ben Youssef con il suo splendido cortile, i parchi della Mènara, gli hammam. Oltre alla moschea di Ben Salah, assolutamente da non perdere la Koutoubia, la moschea più grande e spettacolare di Marrakech, con il suo severo minareto a pianta quadrata alto 70 metri; l’architettura di questo complesso, che risale alla fine del XII secolo, ha fatto da modello per la torre di Hassam a Rabat e per la Giralda di Siviglia. Marrakech è però anche il punto di partenza per scoprire il Marocco da altre angolazioni. Da qui si raggiunge facilmente Essaouira, una vivace cittadina sulla costa fondata dai portoghesi: da ammirare la medina bianca, le mura e le fortificazioni della Sqala aperte sull’oceano. Tangeri è il porto del mediterraneo dove si respira l’aria piratesca delle galee di Khayr al-Dīn, le sue piazze, i suoi caffè e gli scrittori che qui hanno scritto romanzi memorabili. E poi il deserto. Ma se decidete per le dune e una notte sotto le stelle portate con voi un frammento delle mille e una notte: procuratevi le Quartine di Omar Khayyam e fate in modo di leggerle in due.

A tavola
La cucina marocchina è eccellente. Il piatto forte è costituito dalle tajine e dal couscous. La tajine è uno stufato di carni o pesce con verdure, olive, prugne o mandorle, cucinato lentamente in un tegame di coccio. Per il couscous be’, lasciate che a condurvi sia il momento: è un piatto “sociale” da mangiare senza posate. Una specialità berbera è lo m’choui, un agnello intero arrostito, condito con zafferano e peperoncino. Sulla costa, sono ottimi i piatti di pesce fresco, grigliato o fritto, e gli immancabili frutti di mare. Per i dolci la scelta è ampia: frittelle di miele fritto, makroud di semola e paste di mandorla.

 

Catalogna. Spirito libero

La prima cosa che salta agli occhi è l’uso congiunto della doppia lingua, catalano e spagnolo castigliano. In realtà è qualcosa che si verifica solo nella comunicazione istituzionale: in famiglia, per strada o al ristorante si parla solo catalano. Nazione nella nazione, la Catalogna non ha mai rinunciato alla propria identità. Da secoli. Sempre autonoma, sempre controcorrente, ostinatamente insofferente a qualsiasi dominazione o governo che non fossero i suoi. “Som una naciò! Nosaltres decidim!” – Siamo una nazione! Noi decidiamo! – e contro questa determinazione hanno battuto il capo quasi tutti: Cartaginesi, Romani, Visigoti, Franchi, Arabi, su su fino alla dittatura di Franco. E i catalani hanno sempre preso qualcosa da ciascuno in nome di quel proverbiale spirito d’iniziativa che ha permesso loro di trasformare ogni sconfitta in vittoria, ogni problema in un’opportunità. Non fosse così a Alghero, in Sardegna, non si parlerebbe catalano. La storia è singolare. È il 1213 e presso Muret si fronteggiano due eserciti, quello francese e i catalani di Pere I. Fu un disastro: dopo aver lottato per secoli contro gli arabi per conquistare centimetro dopo centimetro il loro territorio, i catalani si ritrovarono senza re, senza nazione e senza prospettive. La fine? Macché. Barcellona era aperta sul mare e visto che la via di terra era sbarrata i catalani si rivolsero al mare e sul mare fondarono un impero commerciale che si estese fino alla Sardegna. Per molto tempo la lingua catalana fu la lingua del diritto e degli scambi e navi catalane arrivarono fino in Sicilia. Il sogno si infranse contro i musulmani di Al-Andalus di Spagna e la risolutezza dei genovesi nel mediterraneo. Orgoglio, fantasia, intraprendenza: visitare la Catalogna senza tener presente la sua essenza più vera equivale a visitare il Musée d’Orsay a occhi chiusi. Barcellona è senz’altro il punto di partenza. Poliedrica, inquietante, sorprendente: anche in un’epoca dove la globalizzazione sembra azzerare ogni diversità, ogni particolarismo, ai piedi del Tibidabo si ha ancora la possibilità di stupirsi. Si sale dal porto, dalla Barcelloneta, e si percorre la Rambla che attraversa le diverse stagioni di questa città straordinaria: il Barrio Chino, la Boqueria, i deliri visionari di Gaudì. La Catalogna però non è solo Barcellona, è un territorio cangiante che dal mediterraneo arriva fino ai Pirenei. Da Barcellona a Montserrat ci sono solo una sessantina di chilometri ma tutto cambia. Si va verso nord, si percorrono strade di montagna, e tornante dopo tornante il mare è solo un lontano ricordo. Boschi, silenzio, aria pura e nuvole veloci. Sullo sfondo il Monastero, il luogo più sacro e mistico dopo Santiago de Compostela. Tutt’intorno grotte e eremi e una spiritualità che emana da ogni filo d’erba. Una piccola deviazione per visitare il Parco di Montseny e si torna decisamemente verso la costa per risalirla verso il confine francese. È la Costa Brava, una delle mete più frequentate dal turismo balneare di tutta Europa. Palafrugell, Sant Pere Pescador, Empurias, Roses, Cadaqués sono tutte cittadine dove il mare si sposa all’arte e alla storia. Empurias ad esempio è l’antico Emporion fondato dai Focesi di Marsiglia: un importante scalo commerciale poi sviluppatosi in città vera e propria che ha contribuito a diffondere la cultura greca in tutta la penisola iberica e, come Marsiglia, rimasto sempre fedele a Roma durante la seconda guerra punica. A Cadaqués invece si respira la grande arte del Novecento e merita una piccola digressione. Il paesaggio è superbo perché la strada si inerpica lungo i rilievi del Cap de Creus e dall’alto si gode una vista magnifica. Case bianche, uliveti, la brezza del mare: non sorprende che qui vi abbiano soggiornato i più grandi artisti del secolo scorso come Salvador Dalí, Pablo Picasso e Federico García Lorca. Dalì, in particolare, di ritorno da New York, si installò nel piccolo borgo marinaro di Portlligat e qui è rimasta una delle sue case museo. Fra gli ospiti celebri della casa Walt Disney, che qui collaborò con l’artista catalano alla realizzazione di un originale e onirico film d’animazione. Da vedere il Museu More d’Art Grafic Europeu che raccoglie disegni di Dürer, Raffaello, Caravaggio, Rubens, Goya, Picasso, Matisse e molti altri, il Museu d’Art e la Esglesia Parroquial de Santa Maria. Dalla Costa Brava si punta all’interno, alla scoperta dei piccoli gioielli del romanico catalano. Il Monastero benedettino di Sant Pere de Rodes ha avuto una storia travagliata fatta di saccheggi, incendi e ricostruzioni testimoniata dai diversi stili architettonici che si susseguono; la vista sia sul mare del Golfo di Roses che sui Pirenei è fantastica. Dopo Figueres si arriva a Girona, una città ricca di storia che sorge alla confluenza dei fiumi Ter e Onyar; da visitare il quartiere ebraico e la cattedrale gotica di Santa Maria, la più grande al mondo a una sola navata. Si piega decisamente a nord, verso il confine, attraversando scenari da sogno e si giunge a Beget, splendido borgo che nasconde una delle chiese romaniche più belle della regione, e alla cittadina medievale di Besalú. E finalmente Ripoll. Assolutamente da non perdere qui il Monastero benedettino di Santa Maria, con il sepolcro di Berenguer III il Grande e il monumento funerario di Guifré el Pilós. Poco lontano, il Monastero di Sant Joan de les Abadesses. La più importante chiesa romanica di Catalogna, la Cattedrale di Santa Maria, è però a La Seu d’Urgell e siamo ormai quasi a Andorra. Il territorio fra la Val d’Aran e la Vall de Boí è stato dichiarato recentemente Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 2000 e merita senz’altro una visita. L’itinerario alla scoperta dell’interno catalano si chiude, come era cominciato, verso il mare, a Tarragona, dove ritrovare le proprie radici nella splendida città romana, ma prima una sosta assolutamente doverosa: l’atmosfera rarefatta e mistica dei monasteri cistercensi di Vallbona de les Monges, Santes Creus e Poblet.

La Catalogna di Dalì
Di Cadaqués e della labirintica Casa-Museo di Portlligat s’è già detto, ma ovunque in Catalogna echeggia il genio di Salvador Dalì. In particolare nella regione dell’Empordà, la sua terra d’origine. L’artista nasce infatti a Figueres, nel 1904, ed è qui che si può capire meglio l’origine di un talento così eclettico. Lo straordinario Teatro-Museo di Figueres conserva oltre alla cripta dove riposano le sue spoglie, più di 4000 opere lasciate in eredità alla Fondazione Gala – Salvador Dalí. A Figueres si può soggiornare all’Hotel Duran, nello stesso albergo dove Dalì alloggiava – la stanza 101 – e cenare al suo stesso ristorante, quel El Celler de Ca la Teta dove il tavolo da lui solitamente occupato è sempre apparecchiato. E se è vero che dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna, come dimenticare Gala? Una visita al Castello di Púbol, dimora della moglie, manager e musa del grande artista catalano è assolutamente d’obbligo.