La bimba che non amava gli apostrofi

Gaia – 2002 photo by Marco Valente

C’era una volta, e c’è tuttora, una bimba cui gli apostrofi stavano piuttosto antipatici. Oh, certo, non lo faceva esattamente per partito preso; restava tuttavia il fatto che quelle virgole saccenti, troppo aristocratiche per restarsene in basso a metter pace fra un periodo e l’altro, a lei sembravano un po’ troppo formali.
“Mi va bene,” – cantava spesso, – “che quando a un articolo non va di faticare, invece di portarsi appresso una recalcitrante vocale prenda un sberleffo e se lo metta per cappello”. Ma per tutto il resto non ammetteva ragioni: “Questi apostrofi qui mi hanno proprio stufata,” diceva.
Bisogna anche ammettere, a amor del vero, che la bimba, con le parole, ci sapeva proprio fare e, per certi versi, di tutte quelle che sceglieva per ordinare le storie, non ce n’era nessuna che si trovasse scombinata o fuori posto. Ma prima di arrivarci succedeva il finimondo perché, quand’era il momento, la bimba si divertiva a stuzzicare tutte le lettere una dopo l’altra. Non appena succedeva, e succedeva spesso, le vocali, emettendo vocalizzi strazianti, fuggivano come potevano per evitare di essere accentate: AAAAAAAA, urlavano le a, IIIIIIIIII frignavano le i, EEEEEEE si lagnavano le e, OOOOOOOOO protestavano le o. Le uniche che rimanevano serafiche e quiete erano le u, che commentavano il parapiglia con un modulato UUUUUUU. E le consonanti, direte voi? Un caos. La p e la q si prendevano a legnate perché ciascuna sosteneva di essere la lettera vera e accusava l’altra di rappresentare solo un’immagine riflessa; la m commiserava lo stato pietoso in cui versava la n priva di una gamba; la r si lisciava vanitosa la banana da rockabilly; la h, come al solito, era in disparte perché non capiva un’acca.
Un pandemonio, per dirla tutta. Ma alla bimba tutto questo piaceva molto e correva felice di qua e di là premendo un dito sulla pancia di una grassa D, usava la Y come una fionda e faceva l’altalena appendendosi al gancio di un punto interrogativo che, non sapendo fare altro, la guardava con aria interrogativa.
Un giorno, nel bel mezzo di uno di questi festini, apparve un tipo così, né bello né brutto, né alto né basso. Un tipo del tutto ordinario, insomma. Guardò la scena con un’aria piuttosto divertita e poi si mise a sedere aspettando che la buriana cessasse almeno un poco.
La bimba, che in quel momento stava mettendo in croce la x per convincerla a scendere allo stesso livello della v, lasciò perdere tutto e gli si mise di fronte con le mani puntate ai fianchi. “E tu chi saresti? Cretino,” disse, calcando così tanto il peso sulla C che alla poverina venne un attacco di appendicite fulminante che la trasformò in un battibaleno in una G. “Un cretino che l’ama,” rispose calmo, calmo il tipo, e cominciò a togliere accenti apostrofando le vocali con piglio severo.
“A me sembri solo un trombone,” gli disse lei mostrandogli la lingua.
“Può essere,” rispose lui, ma continuò imperterrito.
Le storie, a quel punto, si misero a scorrere veloci, e più la bimba ne inventava, più gliene venivano.
“Perché succede questo?” gli chiese lei un po’ allarmata.
“Perché le lettere sono felici quando le si coccola, e quando capita sono proprio loro a ispirare una storia,” rispose lui depositando un bacio sulle sue labbra.
“Quale storia?” domandò la bimba.
“Precisamente la storia che in questo momento qualcuno sta appena finendo di leggere,” disse il tipo.
“Avrà una fine?” chiese lei tenendo bassa la voce.
Lui la guardò dritto negli occhi per un lungo istante, poi disse piano: “Storie così una fine non l’hanno mai.”