Plata rei

Alice – 2002 photo by Marco Valente

La vedi papà? Riesci a vederla? Eppure è rossa, inquadra tutto il palco, un rosso sangue che ti sarebbe piaciuto molto. Ecco, te la indico. Vedi? Faccio proprio come facesti tu, tanto tempo fa, puntando il dito verso la baia, contro quella città strana di cui non riuscivo nemmeno a pronunciare il nome. No, non credo che tu da lì riesca a vederla, così come io allora non vedevo Buenos Aires. E non vedi nemmeno la sala, le tende di velluto spesso, i legni scuri, il metallo brunito dei tavolini. Di tutto questo, babbo, tu non hai fatto parte. Non hai visto nulla e io non ti rintraccio in nulla. Eppure, questa milonga è stata tutta la mia vita. Avrei voluto, invece, che qualcosa, qui, mi parlasse di te. In qualche modo, in minima parte. Un abito, l’intarsio di una cornice, la vernice lucida dell’insegna. O forse il fruscio dei passi, l’ansito dei sandali, l’intreccio di sguardi, l’odore di brillantina e fumo. Una parola, magari anche solo una bestemmia, purché mi avesse aiutato a capire in qualche modo questo mondo così diverso. E invece. Invece è stata la strada mio padre, non tu. Ed è stata anche mia madre. L’angolo dei quarta, le parole sibilate fra i denti, il luccichio omicida dei coltelli, i silenzi delle cose non dette. La strada mi ha dato tutto, non tu. Persino l’amore l’ho trovato in strada. Tu non mi hai detto nulla delle donne, non mi hai aiutato a capire il mistero che c’è dietro il loro sorriso, del perché fra le loro gambe si muore sempre ogni volta e ogni volta in modo diverso. Del resto come avresti potuto? Sei partito in un soffio. E di te ricordo solo il fiore rosso che si allargava sul petto. Eppure, proprio qui dove tu non dovresti essere, proprio qui dove la tua voce non è mai risuonata, io parlo con te. Come se tu qui ci fossi sempre stato, come se tu, da quella nave, avessi visto tutto. E questo, qualcosa vorrà pur dire.
Nella milonga deserta si fa strada una lama di luce. È appena una scia polverosa, diafana, malata, ma precisa i contorni delle sedie rovesciate ordinatamente sui tavoli. L’uomo è assorto, segue con l’indice il contorno di una figura su un poster pubblicitario che la luce del giorno ha partorito dall’oblio: è l’annuncio di un’esibizione di un’orchestra tipica. La data è quella del 26 ottobre 1936.
Un operaio in tuta blu si avvicina titubante all’uomo. Ha l’aria appesa. Sgomenta, ma non contrariata. Chiede conforto e sicurezza allo sguardo dell’altro operaio. La sua voce non riesce a vincere l’imbarazzo.
– Il signor…
– Sono io.
L’operaio cerca quelle parole che non si trovano mai e che da qualche parte dovrebbero pur essere. Guarda di nuovo il compagno. Una muta richiesta d’aiuto che cade rumorosamente nel vuoto della sala da ballo.
– Deve scusarci, ma dovremmo iniziare i lavori…
– Sì, lo so. Stavo andando via.
Stavolta l’operaio le sente fiorire sulle labbra. Le parole, quelle giuste da dire, quelle che chissà perché tardano sempre ad arrivare.
– Mi dispiace, signore.
L’uomo abbozza un sorriso, non si è nemmeno girato, continua a scrivere e riscrivere i nomi sul poster. Ma non è che si possa scrivere all’infinito, a un punto fermo si arriva sempre. Il bar non è lontano, appena pochi passi, una fola di vals. Non ci sono bottiglie, solo la loro impronta polverosa, ma il grande specchio incute rispetto e la cassa enorme con i tasti a martello sfolgora il suo ottone come una cattedrale. L’uomo apre un cassetto. Estrae un libro dalla copertina nera. Lascia che il vuoto lo osservi di rimando. Si avvia all’ingresso.
– Signore?
L’uomo si ferma. Si volta verso l’operaio. La sua è una figura che si staglia in controluce come un dio decaduto.
– Sì?
L’operaio allarga le braccia indicando lo spazio intorno. Vorrebbe abbracciare ogni singolo granello di polvere.
– Cosa dobbiamo farne di tutto questo?
L’uomo non risponde subito. Si prende i suoi tempi, accarezza distratto la copertina del libro.
– Tu sei il figlio di Gonzales, vero?
– È mio padre.
– E fa ancora il pescatore?
– Non più, signore. Però ha ancora la barca: non riesce a star lontano dal mare.
L’uomo sorride. Finalmente alza lo sguardo.
– Capisco. Fa’ così allora. Di’ a tuo padre di caricare tutto sulla sua barca. I tavoli, il bar, le sedie, le mensole. Tutto, anche l’insegna. E poi digli di gettare tutto nella baia del porto. Ci vorrà del tempo, probabilmente. La barca di tuo padre è piccola, se è ancora quella. Però lo pagherò bene. Diglielo.
L’operaio si guarda smarrito con il compagno.
– Ma…
– Digli anche di appesantire gli oggetti leggeri. Devono andare a fondo. Lui capirà.
– Sì, signore… Signore?
L’uomo ha quasi varcato la soglia. Si ferma di nuovo. L’operaio non riesce a liberarsi di quelle parole che ormai, una volta trovate, non vogliono più andar via. Lo raggiunge uscendo dalla penombra della sala. Gli si accosta al fianco come un chierichetto davanti al mistero di un officiante.
– Perché?
L’uomo abbassa lo sguardo sul libro. Lo soppesa con gli occhi, ne liscia il dorso con le dita.
– Vedi questo? Era la Bibbia di mio padre. La sola cosa che mi ha lasciato. L’ho tenuta con me per tanto tempo, ma non ne ho letto che una piccolissima parte. Solo questa, in tutti questi anni. C’è scritto che per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per demolire e un tempo per costruire. Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare. Un tempo per serbare e un tempo per buttar via. Io non posso portare con me più di quello che riesco a trasportare. E quello che posso trasportare l’ho già caricato. Ho speso una vita per capire che le cose che servono davvero non hanno nome e non hanno sostanza. Lasciano ricordi, e i ricordi, pur senza peso, sono difficili da portare. Il resto, può andare dove vuole, sebbene mi piacerebbe andasse dove ti ho detto. Sul fondo del mare.
– Capisco. Buona giornata, signore.
– Buona giornata a te, Pascal.