Mi chiamo Bart e oggi, per la prima volta nella mia vita, dovrò decidere della mia vita. Non che della vita non sappia nulla, ne so anche troppo in verità, ma della mia non mi sono più curato da tempo, immerso, come sono stato a lungo, nelle piccole o grandi vicende che hanno eletto questa stanza poco illuminata e ingombra di ingranaggi a palcoscenico dell’esistenza. Pareti glabre chiazzate d’umido, uno scaffale addossato, un lungo tavolo di legno librato sul pavimento sconnesso, l’odore pungente del muschio, un riquadro di luce polverosa che arriva a stento dal piano stradale, piedi veloci sospinti da misteriose urgenze: è ben misera cosa a prima vista questo posto, ne convengo, ma chi ha visto scivolare via senza accorgersene le proprie speranze come sabbia fra le dita non tiene molto alla forma, non ha bisogno di uno spazio sontuoso: arriva con gli occhi sgranati delle battaglie perdute e un orologio fra le mani tremanti. Lo posa qui, sul tavolo, quel congegno inflessibile e incurante di tutto, e mi racconta di quando il tempo scorreva pieno e quell’orologio scandiva momenti felici, di quando a un certo punto, impercettibilmente, ha cominciato a perdere colpi, a inciampare, a non segnare più l’ora esatta, di come via via non ci fosse più un tempo comprensibile ma istanti diversi sempre più discordi, dell’angoscia di non sapere in che modo riportare il tempo al proprio tempo, di quando alla fine, con suprema indifferenza, aveva smesso di muoversi. Le lancette continuavano a girare, certo, ma quel tempo ormai non apparteneva più a nessuno. Come era potuto accadere? Era una domanda che aveva già una risposta, non ero io a doverla dare, io dovevo solo cercare nelle grandi scatole piene di pezzi di metallo, ruote dentate, viti microscopiche, esili molle, corone sottili e lamine minute quel piccolo particolare che avrebbe ricondotto quell’orologio a quell’esistenza, scovare nelle viscere il granello di polvere che aveva inceppato il meccanismo: la parola non detta, l’azione non conclusa, lo sguardo non rivolto, la carezza non data. Gesti che per mille motivi non avevano seguito le intenzioni e che lentamente avevano corroso rapporti luminosi oscurandoli con il velo dell’incomprensione; sarebbero avvenuti, certo, ma in ritardo, quando il guasto era ormai un fatto che aveva messo radici nel presente. È incredibile quanto tutto, spesso, sia solo una questione di tempo, del giusto al tempo giusto, e quando lo si scopre si vorrebbe tornare a quel momento, per mettere a posto le cose, per riportare il tempo al suo tempo. Qualche volta ci si riesce, il più delle volte no, per questo vengono da me: perché io, Bart, riparo orologi. O meglio, riparavo orologi, perché oggi da me è arrivato un orologio che non so se potrò riparare. È piombato lieve su questo tavolo con un profumo di sale che avrei riconosciuto anche al buio. Sono sobbalzato perché per sapere che era lei non mi serviva altro; se lei ha riconosciuto me non saprei, in ogni caso non l’ha dato a vedere. Poche parole, le stesse che sento da sempre: un uomo, un momento, un dato imperfetto. “Torno domani,” ha detto, e domani è solo fra qualche ora, e io dovrò decidere se quell’orologio scandirà il mio tempo o quello di un altro uomo. Sono davvero uno stupido, so già che il pezzo che andrò a cercare non sarà il mio.
È tornata, puntuale come non era mai stata. L’orologio sul tavolo ticchettava quieto. Gli ha dato una lunga occhiata: era un lavoro ben fatto, l’ultimo che sarebbe uscito da questo posto. L’ha rigirato per un po’ fra le mani. “Così hai fatto quello che ti ho chiesto,” hanno saettato divertiti i suoi occhi in penombra, “Bene.” Non ho detto nulla, cosa si può replicare all’evidenza? Lei però ha fatto una cosa che non aveva fatto nessuno: invece di portare via la sua nuova vita ha posato delicatamente l’orologio sul tavolo e leggera come una spuma di mare si è diretta al pannello degli attrezzi. Si è voltata con una strana luce e un martello in mano: “Volevo sapere se potevo ancora fidarmi di te, amore mio,” ha detto, e l’orologio ha cominciato a volare in mille pezzi.