Mondo in Blue – The Blue Panorama Magazine nov/dic 2012

Repubblica Dominicana. Caraibi da sogno

Spiagge di sabbia bianca, acque turchesi, catene montuose sommerse dalla giungla e solcate da fiumi e cascate superbi, laghi e foreste di mangrovie. Non c’è da stupirsi se i marinai di Colombo siano letteralmente impazziti: nessuna fantasia, anche dopo tanti mesi trascorsi in mare, poteva minimamente prepararli alla vista che in quel momento si offriva ai loro occhi. Era un Eden, una terra fiabesca, un mondo incantato. Il bello è che non solo lo era allora, ma lo è anche adesso. Per ritrovare lo stesso spirito, la zona coloniale di Santo Domingo, la capitale, è quindi un buon punto di partenza per scoprire le bellezze dell’isola, ricordando che però proprio un’isola non è perché il territorio è diviso a metà con Haiti. Santo Domingo è stata la prima città europea a essere stata fondata nelle Americhe e qui agli inizi del Cinquecento sbarcavano a centinaia in cerca di fortuna: coloni, affaristi, conquistadores. Gli edifici sono belli e Santo Domingo non dimentica di essere stata un importante centro amministrativo governato da Diego Colombo, figlio del grande navigatore genovese a cui è dedicato il Parque Colón; nei pressi la più antica cattedrale del Nuovo Mondo, la Catedral Primada de América. Certo, se si potesse chiedere il parere dei Tainos, gli antichi abitanti dell’isola, probabilmente avrebbero da qualcosa di diverso da dire circa la venuta degli spagnoli, e altro ancora aggiungerebbero le decine di migliaia di schiavi portati dall’Africa per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. Storia nota, purtroppo, che ha portato alla scomparsa di intere civiltà e che tuttavia un poco è possibile ancora ammirare nei musei tematici sparsi un po’ ovunque in città, da quelli etnici a quello sulla storia coloniale all’ambra. Solo cultura dunque? Neanche per idea. Santo Domingo è animata da un’elettricità vibrante e vitale, con musica e balli a ogni angolo di strada, locali e feste popolari. Oltre alla capitale, merita una puntata Santiago, una tranquilla cittadina ideale per fare acquisti di rhum e sigari. Ma è ancora la natura qui la regina incontrastata. Nonostante la superficie ridotta, infatti, la Repubblica Dominicana ospita ben nove parchi nazionali. Il Parque Nacional Los Haitises è situato a sud della baia di Samaná; il Parque Nacional Armándo Bermúdez e il Parque Nacional José del Cármen Ramírez sono nella Cordillera Central. A nord-ovest c’è il Parque Nacional Monte Cristi mentre a sud, nei pressi del confine con Haiti, il Parque Nacional Isla Cabritos con il lago Enriquillo, il Parque Nacional Sierra de Bahoruco ed il Parque Nacional Jaragua, il più grande di tutte le Antille. Bellissimo il Parque Nacional Submarino La Caleta, l’unica riserva interamente sottomarina del paese, e infine il Parque Nacional del Este. Per le spiagge non c’è che l’imbarazzo della scelta. Amber Coast, Puerto Plata, Sosúa, la baia di Cabarete, Cayo Levantado sono tutte splendide località, ma se siete da questi parti fra gennaio e febbraio non perdetevi uno spettacolo unico al mondo: la stagione degli amori delle megattere nella baia di Samaná. Da solo vale per intero il viaggio.

L’isola del merengue a tavola
La cucina dominicana è molto semplice ed è tipica di tutto il Centro America. Riso, fagioli neri o rossi, carne, platanos fritti (una specie di banane) e verdure costituiscono il classico pasto principale dominicano. Un piatto caratteristico del nord del Paese è il sanchoco, a base di diversi tipi di carne e legumi. Immancabile la frutta tropicale che qui ha davvero tutto un altro sapore. Chicarròn, riccioli di cotenna di maiale fritta, e cazabe, che è un tipo di pane preparato con la yucca sono un aperitivo molto stuzzicante da accompagnare con lunghe sorsate di birra fresca. Essendo un’isola è molto frequente trovare anche piatti di pesce, cucinato di solito con latte di cocco, e di crostacei. Onnipresente il rhum, che qui conta molte etichette e si trova in diversi gradi di invecchiamento. Irrinunciabili quindi i cocktail tropicali, cuba libre e piñacolada in testa.

 

Kenya. La vera Africa

Il caldo è soffocante, taglia il respiro. E nella savana tutto sembra immobile, quasi sospeso. Vicino scorre il fiume Mara. Le acque sono fangose, scure, limacciose. Qua e là affiora qualche tronco rugoso. A un tratto la terra comincia impercettibilmente a tremare. All’inizio è solo una vibrazione ma man mano che passa il tempo diventa sempre più evidente. Lontano una nuvola di polvere e un rumore sordo che aumenta di intensità e sovrasta ogni cosa. I tronchi nel fiume sono stranamente più numerosi e sembrano andare contro corrente. Un paio di occhi gialli e freddi si materializzano sull’acqua: non sono tronchi, sono coccodrilli. Il rumore aumenta, diventa un frastuono. La terra sussulta. Gli occhi sul fiume diventano quattro, poi sedici, poi ventiquattro, poi non si contano più, e sulla pianura avanza una marea nera. È la migrazione di massa degli gnu, quasi due milioni insieme a qualche centinaio di migliaia di zebre, che dal Masai Mara in Kenya si spostano nel Serengeti in Tanzania. È il loro calvario, un ciclo di vita e di morte che si ripete ogni anno, da sempre, drammatico e affascinante allo stesso tempo. Il percorso è circolare, da est a ovest, sempre quello, e i predatori lo sanno. Gli gnu devono attraversare il fiume alla massima velocità possibile per sfuggire ai coccodrilli, si accalcano, quasi si calpestano, ma hanno anche sete, qualcuno si attarda a bere, è un attimo: due fauci scattano in alto, si serrano inesorabili sul muso dello sfortunato gnu che resiste, punta gli zoccoli cercando una presa nel fango vischioso dell’argine, si divincola. È una lotta impari. Il coccodrillo non molla nemmeno per un istante e le forze vengono meno. Lo gnu è trascinato in acqua e lì fra un nugolo di rettili affamati si consuma la carneficina. Ma per uno che non ce la fa sono centinaia quelli che passano il guado, che si salvano. Almeno per un po’, perché sull’altra riva ad aspettarli ci sono leoni, leopardi e iene. Ogni anno gli gnu pagano un tributo pesante ma questa è la legge severa della savana: la sopravvivenza del gruppo richiede il sacrificio dei singoli. Il Kenya è così, non ama le mezze misure, e ci riporta a un periodo lontanissimo della nostra storia dove sopravviveva solo il più adatto, dove la comunità contava più del singolo e dove comunque ogni sbaglio si pagava con la vita: non dedicare qualche giorno a un vero safari sarebbe davvero imperdonabile, è come se visitando i Musei Vaticani si tralasciassero la Cappella Sistina e le Stanze di Raffaello. Il Kenya ha però anche molte altre attrattive e pur essendo un paese equatoriale presenta climi molto vari. A est la costa bassa e sabbiosa dell’Oceano Indiano, a nord aree desertiche e a sud e al centro altopiani, boschi e savane solcati dalla Rift Valley, una depressione di origine vulcanica dove si pensa abbia avuto origine l’uomo. Tutt’intorno rilievi che si innalzano fino ai 3000 metri, soffioni boraciferi e geyser, laghi d’acqua dolce e salata: una corte che si prostra ai piedi del Monte Kenya e del Kilimanjaro, i due giganti africani alti oltre 5000 metri. Nairobi, la capitale, ha l’aspetto delle grandi metropoli moderne con il Central Business District dove svettano grattacieli e avveniristici edifici, ma basta spostarsi di pochi chilometri per immergersi nella natura selvaggia del Nairobi National Park. Oltre ai parchi dell’interno, fra cui il Masai Mara e il Meru National Park, il Kenya è interessante anche per un soggiorno al mare. Mombasa, bella per le architetture della Città Vecchia e per il Fort Jesus, è il punto di partenza per scoprire le splendide spiagge tra Malindi e Watamu. Incantevoli l’isoletta di Kiwayu e quella di Lamu, la cui città principale è patrimonio mondiale dell’UNESCO.

A tavola
Una cosa la si deve dire subito: se siete interessati all’aspetto gastronomico, il Kenya non è proprio la scelta più adatta. Del resto è anche immaginabile visto che la storia di questo paese, a parte la fascia costiera, è data dall’economia di sussistenza di piccoli villaggi disseminati all’interno. Tuttavia un cenno è doveroso. Il piatto più diffuso è il nyama choma, cioè la carne alla griglia. La carne viene servita anche come stufato e accompagnata da fagioli. Ugali è onnipresente ed è una sorta di polenta di mais condita con salse diverse. Non è però il ristorante il luogo più tipico per mangiare, qui la cultura prevede per i pasti del giorno un’alimentazione frugale e veloce e alle bancarelle sono diffusissime le sambusas, frittelle ripiene di carne macinata o verdure. Sulla costa si avverte sensibilmente l’influenza araba, ma è Lamu che si guadagna sul campo i gradi di gourmet perché il kuku wakupata, il pollo alla marinara, è davvero buono. E da bere? Birra, il vino è meglio dimenticarlo.