Mondo in Blue – The Blue Panorama Magazine gen/feb 2014

Cuba. Un mix vibrante di storia e musica, poesia e passione

Chi sceglie Cuba per i Caraibi, per il suo mare e le sue spiagge, non rimarrà mai deluso perché sarà sempre un viaggio da sogno, indimenticabile. Ma chi si limita solo a questo rischia di perdersi o trascurare uno degli spettacoli più entusiasmanti e emozionanti del mondo, talmente bello da ferire gli occhi e far sobbalzare il cuore: l’atmosfera delle sfolgoranti città coloniali di Cuba. Perché è qui, nella loro architettura, nelle rete delle loro vie e delle loro piazze, che si annida il vero spirito di Cuba e dei cubani, è qui che nasce la loro vitalità, è qui che è fiorita la loro musica. Le facciate e l’interno delle chiese, la maestosità dei palazzi, le pietre rosate che si accendono al tramonto, le ringhiere in ferro battuto, gli scuri accostati, i patii e i cortili interni, i giardini segreti, le fontane. Ogni cosa è immersa nella luce e nei colori, e danza, vibra: non sono solo città le città cubane, sono inni alla gioia di vivere e di stare al mondo. Non è affatto un caso se il fascino coloniale di Cuba ha stregato e ispirato musicisti, poeti, letterati e pittori arrivati qui da mezzo mondo e qui rimasti. Del resto qui si parla di Cuba, Cuba l’ammaliatrice, Cuba la seduttiva, l’isola che ti ruba l’anima e non te la restituisce più perché, in fondo, nemmeno tu la vorresti mai indietro: era un dono quello, non un prestito. Non stupisce allora che anche l’Unesco abbia subito lo stesso fascino e dichiarato molti luoghi di queste città patrimonio culturale dell’umanità: L’Avana Vecchia e il suo sistema di fortificazioni, Trinidad e gli zuccherifici della “Valle de los Ingenios, il Castello “San Pedro de la Roca del Morro” a Santiago de Cuba, la “Valle de Viñales” di Pinar del Río, il centro storico di Cienfuegos e quello della città di Camagüey, oltre ai parchi nella province di Granma, Santiago de Cuba, Holguín e Guantánamo. Luoghi diversi ma animati da un denominatore comune, che poi è la dimensione più evidente di Cuba, quella di essere crogiolo di razze, mescolanza di culture e di lingue. È per questo che accanto alle possenti fortificazioni de L’Avana – non solo le più grandi e meglio conservate del Nuovo Mondo ma anche le più belle – le carrozze a cavalli di San Salvador de Bayamo, l’impianto urbano di Sancti Spíritus e l’atmosfera meticcia di Santiago, si trovano ancora resti dell’antica cultura indigena dei Tainos come a Holguín, dove nell’area di ritrovamento di un villaggio e della relativa zona sepolcrale è stato realizzato un parco archeologico di 22mila metri quadri che ha il suo centro nello splendido Museo del Sitio del Chorro de Maita, un’autentica rarità in tutte le Antille.

Santa Clara. La città della Rivoluzione
Santa Clara data una fondazione più tarda rispetto alle “magnifiche sette” e risale alla fine del Seicento, quando alcune famiglie di Remedios decisero di trasferirsi qui per sfuggire agli incessanti attacchi dei pirati. Oggi è una graziosa cittadina che si irradia dal Parque Vidal ed è sede della seconda università del paese. I motivi per cui Santa Clara è nel cuore dei cubani non fanno però riferimento al periodo coloniale ma hanno a che fare con la storia più recente di Cuba. Santa Clara fu infatti il primo centro conquistato dai barbudos di Castro comandati da Che Guevara e Camilo Cienfuegos: è da qui insomma che è partita la Revoluciòn e per il Che Santa Clara ha una vera e propria venerazione. Il Memoriale e il Museo dedicati a Che Guevara sono su un’altura lungo l’Avenida de Ios Desfiles, appena fuori il centro città. All’interno del memoriale arde una fiamma perenne per onorare i resti mortali di trentotto rivoluzionari e le spoglie del mitico Comandante. Oltre al Museo Historico de la Revoluciòn che conserva un’interessante raccolta di foto e cimeli, svetta nel grande piazzale alle spalle del memoriale la statua di Che Guevara, la più grande esistente a Cuba dedicatagli a Cuba, eretta in occasione del ventennale
del suo assassinio in Bolivia.

 

Egitto. Inedito Mar Rosso

Il Mar Rosso è noto soprattutto per la vicenda biblica di Mosè e la separazione delle acque. Esiste però un’altra vicenda, storica questa volta, che ha ancora a che fare con divisioni e religione ma che a tratti assume anche i colori di un appassionante romanzo dove intrighi, assassinii, devozione e misticismo si intrecciano in una trama che non ha nulla da invidiare al “Nome della rosa” di Eco. Efeso, Anatolia, 431 d.C., i vescovi delle grandi città della cristianità sono chiamati a Concilio per dirimere una controversia che sta scuotendo dalle fondamenta l’unità dell’impero già duramente provato dalle invasioni dei barbari: la natura di Cristo è più umana, più divina o ha entrambe nello stesso modo? Nestorio di Antiochia propende per una natura prevalentemente umana ma ha come avversario, che sostiene la natura divina, il vescovo Cirillo, patriarca di Alessandria, uno che non va tanto per le spicce visto che si era già segnalato pochi anni prima per essere stato il mandante dell’assassinio di Ipazia, la matematica greca che non voleva smettere di fare la scienziata. Cirillo, approfittando di alcune assenze importanti e ricorrendo alla propria guardia personale di fanatici parabolani, con intimidazioni e corruzioni aveva assunto la presidenza dell’assemblea ed era riuscito a far approvare all’unanimità le sue tesi. Accade il finimondo. Tafferugli, violenze, rivolte, fino a che l’imperatore Marciano convoca vent’anni dopo un altro concilio a Calcedonia, dove le tesi di Cirillo vengono sconfessate. Da allora la chiesa monofisita di Alessandria si stacca ed esiste ancora oggi col nome di Chiesa Copta. La via al monachesimo che era già una componente forte un secolo prima, ai tempi di Antonio e Pacomio, si estremizza e i monasteri sorgono un po’ ovunque, soprattutto in zone desertiche e impervie, sia nei pressi della costa occidentale del Mar Rosso, sia nella penisola del Sinai. Quando arrivano gli arabi l’isolamento diventa completo e la chiesa si cristallizza sulle sue posizioni. Però è proprio agli arabi che dobbiamo il termine copto – è la storpiatura araba della parola Eghiptos – e la possibilità di visitare intatti e non corrotti questi luoghi del Cristianesimo più antico. Così se decide per una località di mare come Dahab, Nuweiba, Taba o Sharm El Sheikh, fra un’immersione e un drink sulla spiaggia, sarebbe davvero imperdonabile perdersi quell’atmosfera di rarefatta spiritualità che aleggia al Monastero di Santa Caterina, una fortezza nel deserto che all’interno di mura alte anche 15 metri conserva gelosamente un patrimonio di valore inestimabile: oltre 2000 preziose icone e più di 3000 manoscritti in greco, siriaco e altre lingue orientali. Senza parlare dell’ascensione a dorso di cammello sul sovrastante Monte Sinai, il monte delle Tavole di Mosè, da cui si gode una vista magnifica. Se invece si preferisce la costa occidentale – Hurghada, Port Safaga, Al-Quseir, Berenice o Marsa al Alam – c’è solo da scegliere se visitare il monastero di San Paolo, quello di Sant Antonio o, in un impeto da viaggiatore del tempo, dirigersi verso Luxor, un luogo dove il tempo è rimasto fermo a 3500 anni fa.

Mare, mare e ancora mare
Sabbie dorate che si perdono in acque cristalline da cui riverberano incredibili tonalità e sfumature di colore. Colori che si trovano anche appena sotto la superficie dell’acqua, perché qui siamo ai tropici, c’è la barriera corallina e il mare esplode in milioni di forme di vita. È il Mar Rosso, una lingua d’acqua che si insinua in mezzo al deserto e lambisce con la punta biforcuta di un serpente tentatore il Sinai. Una destinazione che si può scegliere tutto l’anno e dove il dilemma è solo quello di decidere quale angolo di paradiso abitare fra le magie di un posto unico al mondo come Sharm El Sheikh, con la spiaggia Na’ama Bay e i fondali di Capo Ras Mohammed, il Blue Hole e le oasi di Dahab, l’incontaminata barriera corallina di Port Ghalib o l’incontro fra l’oro del Sahara e il turchese del mare di Marsa Alam. Per quanto a lungo durerà il soggiorno, saranno giorni che sembreranno sempre pochi.

 

Laura Pausini. Ritorno alle origini

Difficile trovare un cantante italiano più popolare all’estero di Laura Pausini, forse solo Eros Ramazzotti o Andrea Bocelli potrebbero riuscire a insidiarle un trono dal quale lei, dopo vent’anni di carriera e oltre 51 milioni di dischi venduti, può permettersi di guardare tutti dall’alto in basso, da vera regina dello star system del pop internazionale. Certo, cambiare incessantemente latitudine anno dopo anno per portare la propria musica in giro per il mondo, svegliarsi ogni giorno in un albergo diverso, cantare in inglese, spagnolo, francese o portoghese e magari usare le stesse lingue per ordinare la colazione in camera qualche timore di perdere la propria identità devono averlo sollevato se oggi Laura si è fermata a riflettere sulla propria vita, sui propri affetti e, da romagnola verace, sulle proprie radici e la propria terra. Probabilmente molto si deve anche alla piccola Paola, la figlia che Laura ha avuto recentemente dal compagno Paolo Carta: è stata proprio lei, prima ancora di nascere, a riuscire là dove tutti avevano fallito, a interrompere il girovagare di un’artista che aveva eletto il mondo intero a palcoscenico. Così Laura l’infaticabile, a settembre del 2012, annulla tutte le rimanenti date già fissate per il suo Inedito World Tour 2011-2012 e rinuncia a partecipare agli eventi, alle manifestazioni e ai programmi televisivi a cui era stata invitata e che aveva in agenda. Un silenzio relativo, ovviamente, perché la voce inconfondibile della Pausini continua imperterrita a diffondersi dagli altoparlanti delle radio e dai diffusori degli impianti stereofonici, e la produzione di cd e dvd non perde nemmeno un colpo visto che fra il novembre del 2012 e il febbraio del 2013, quando Paola vede la luce, vengono pubblicati nuovi lavori e edizioni, fra cui l’album collettivo del tributo a Giorgio Gaber, l’Inedito Special Edition, il dvd con registrazioni del tour e contenuti speciali. Ma l’aspetto più eclatante di questo guardarsi alle spalle è racchiuso in un video nel quale incide una vera e propria dichiarazione d’amore nei confronti dei suoi genitori, soprattutto verso papà Francesco che fin dall’inizio l’ha sostenuta e incoraggiata arrivando persino a portarsela dietro a nemmeno dieci anni durante le serate che lui, cantante di pianobar, animava nei locali della riviera romagnola. Il video è l’essenza stessa del Pausini-pensiero del dopo Paola: una struggente rievocazione dell’incontro fra i due, il loro innamoramento, il matrimonio, la sua nascita e quella della sorella Silvia, l’infanzia, i primi passi come cantante a fianco del padre. Radici insomma di cui Laura, l’internazionale Laura, rivendica orgogliosamente l’origine e l’appartenenza. E così, i vent’anni di carriera che l’hanno portata dalla piccola e raccolta Faenza a calcare i palcoscenici di cinque continenti, diventano l’occasione per fare un bilancio, per ripensare alla propria storia e guardare con occhi nuovi la vita che, da madre, gli si schiude davanti nuova anch’essa: è questo il mondo che oggi Laura ha deciso di portare in tour nel nuovo The Greatest Hits World Tour 2013-2014, per ricominciare esattamente da dove aveva interrotto appena un anno fa.

Vent’anni di successi
La storia professionale di Laura Pausini si confonde praticamente con la sua vita. Nel 1991, a 17 anni, partecipa iscritta dal padre alle selezioni del Festival di Castrocaro. L’anno successivo vince il concorso televisivo Sanremo famosi, ma a Sanremo arriverà solo nel 1993 quando vince nella categoria Nuove proposte. L’anno successivo torna all’Ariston nella categoria Campioni e si piazza al terzo posto. Da qui ha inizio la straordinaria avventura all’estero di Laura Pausini nel corso della quale, oltre innumerevoli Dischi di platino, colleziona un Grammy Award nel 2006 nella categoria Miglior album Pop latino dell’anno con Escucha – prima di lei c’era riuscito solo Domenico Modugno nel 1958 – e ben tre Latin Grammy Awards nella categoria Miglior album Pop femminile nel 2005, nel 2007 e nel 2009.